

Prefazione di Gabriele La Porta, filosofo
Scrivere poesia ormai è un atto coraggioso. Perché il linguaggio dominante, il linguaggio più diffuso, oggi, è quanto di più anti-poetico si possa immaginare: è il linguaggio dell’utile, dello strategico.
Il linguaggio che pretenderebbe di descrivere le cose così come esse sono.
Ma nel descrivere, il più delle volte, si cela un’ intenzione differente, che è quella di controllare, di possedere.
Il linguaggio corrente mira a definire, a stabilire contorni immutabili, a proiettarsi sull’essere cristallizzandolo per sempre.
Altro è la poesia.
E, in questo, il canto di Anna Appolloni è un esempio luminoso. Perché è un canto puro, semplice, immediato, fatto di rumori di passi, di volti intravisti tra casali e roseti, della naturale vicenda delle stagioni, di immagini di pace o sofferenza sempre sincere. Un linguaggio, oserei dire, fatto degli elementi semplici, immediati, di quella che chiamiamo vita.
E qui sta il punto. Perché è proprio la semplicità (qui un cedro che «Maestoso si eleva verso il cielo», là una lumaca che «signorile fronteggia le intemperie») la più sicura garanzia di poeticità del linguaggio.
La parola di Anna Appolloni, mi pare, non pretende di descrivere, bensì di evocare.
Ed evocare non significa se non: alludere agli oggetti lasciandoli essere.
Senza tentare di controllarli. Le poesie che state per leggere sfiorano la realtà senza volerla invadere, lasciandola intatta – e dunque preservandone il fascino [...].
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Il Filo S.r.l., Roma,2005